New York, New York al Conservatorio di Milano

Sala Verdi.

L’esclamazione gridata è frizzante, briosa, travolgente. New York, New York. Rievoca fantasiosi spettacoli inscenati sulla polvere dei teatri di Broadway, serate di gala con sax, trombe, tromboni e ritmica swing in voga con le più luccicanti big band e il mito americano transitato dalla Grande Depressione fino alla Pop Art di Andy Warhol. Magari, con epilogo obbligato nel cinema d’autore di Martin Scorsese. Una leggenda circoscritta all’ombra dei grattacieli sulla Fifth Avenue che viene declinata attraverso quattro temperamenti musicali, in modi diversissimi: il trascinante Bernstein nel suo sfrenato eclettismo di autore, interprete e divulgatore di genio, la 43enne londinese Anna Clyne (residente negli Stati Uniti dal 2019), un simbolo della rinascita americana come George Gerswhin, passato dal ruolo di song plugger alla Tin Pan Alley a compositore acclamato, e un emigrato boemo in America come Dvořák, cui piaceva intingere il sinfonismo postromantico di melodie indigene.

Se il buongiorno si vede dal mattino, giusto partire dal Candide di Bernstein, prova generale di West Side Story con un impianto a metà fra operetta e musical. Scritto nel 1956 è l’esempio di un ammiccamento colto, non solo all’Illuminismo di Voltaire, ma a una ricca tradizione musicale. Insomma, un sarcastico «rifacimento del wagneriano Crepuscolo degli dei, curato da Rossini e Cole Porter» (giusto per riprendere le parole di Tyrone Guthrie, regista della prima) che già nella vitalistica Ouverture riporta la spumeggiante irruenza fatta di ritmi fraseologici irregolari, temi di fanfara, schegge di musica militare e anticipazioni di arie d’opera come Oh, Happy We e Glitter and Be Gay.

Sala Verdi del Conservatorio di Milano

Red, da Color Field, è invece il movimento intermedio di una partitura battezzata in prima mondiale nel 2021, pubblicata da Boosey & Hawkes. A detta dell’autrice Clyne, l’ispirazione ha due punti di riferimento: un omaggio all’amica Melanie Sabelhaus (pioniera nel mondo degli affari e dell’impegno filantropico, nonché amante del colore arancione di Hermès “Orange”) e l’interesse per la pittura di Mark Rothko. In particolare Orange, Red, Yellow del 1961, «con il rosso e il giallo che incorniciano un enorme sciabordio di arancione vibrante».

La ricerca è nata dunque da un preciso intento sinestetico (non lontano, come vedremo tra poco, dalla folgorazione per il blu di George Gerswhin), in cui Red indica «i fuochi che divampano con audaci motivi percussivi e linee cadenzate». Ci sono poi alcuni temi musicali che negli anni hanno assunto un’identificazione totale con l’autore che li ha partoriti. Il sinuoso glissando del clarinetto che sibila dal trillo sul fa basso al si bemolle acuto, celebre esordio della Rhapsody in Blue, è divenuto il fregio delle orchestrine jazz in versione più colta, con lo stesso swing intonato ai civettuoli petting parties che furoreggiava negli anni di Scott Fitzgerald.

Questo atto di nascita del jazz sinfonico, con la nobilitazione dei canti degli ex-schiavi in un’America puritana (ricevimenti in abito chiaro e farfallino d’ordinanza, un’ombra di brillantina sui capelli) è datato 12 febbraio 1924, nella 4 Aeolian Hall newyorkese. L’accostamento di jazz e radice sinfonica fu il frutto deliberato di un “Esperimento nella Musica Moderna” voluto dal direttore Paul Whiteman. Gershwin si ritrovò inconsapevolmente arruolato in un articolo del «New York Herald Tribune», che reclamizzava la serata a un mese dal debutto. La reazione, invece che di terrore, fu di rinnovata energia.

Il pezzo fu pensato in poche ore, su un treno che lo portava a Boston: «Ero altalenato dal battito delle ruote, da quel caratteristico rumore ritmato che stimola la fantasia dei compositori… quando d’un tratto sentii, vidi sulla carta lo schema completo della Rhapsody». L’autore volle dunque rifarsi a un’associazione sinestetica, cara tanto al simbolismo francese quanto all’inglese Whistler, il pittore amico di Mallarmé: non al blues, ma al blu notte come connotazione che richiama i colori crepuscolari e i profumi notturni.

E così sotto una cupola circolare si susseguono in forma rapsodica un primo tema inebriato di swing, un secondo più agitato e convulso, più un terzo, il vero motivo blues: esposti e rimescolati liberamente fino all’ultima affermazione del clarinetto, in coda. Come altri rappresentanti in aree periferiche, Dvořák alimentò invece la sua produzione musicale attingendo alle radici di un folklore riconducibile all’idea di panslavismo europeo: non limitato all’area ceca e morava, ma prodigo di estensioni all’idioma slavo.

L’importante per lui era che emergessero i tratti tipici dell’anima popolare: il cadenzare epico della ballata contadina, la malinconia struggente di certi andamenti lenti e la vitalità aggressiva di danze come la polka e il furiant boemo. Ma la differenza rispetto a Liszt e Brahms sta nel fatto che Dvořák non rielaborò mai le melodie originali; puntò piuttosto a ricostruirle, stilizzandole senza ricorrere alla bassa imitazione. In questo senso va colta l’originalità della Sinfonia “Dal nuovo mondo”.

Nonostante qualche polemica per l’impiego di melodie pellerossa, il debutto alla Carnegie Hall (16 dicembre 1893) fece un certo rumore. In un primo tempo, aveva preannunciato il ritrovamento «nei canti della gente di colore [di una] base sicura per una nuova scuola musicale nazionale», aggiungendo: «L’America può avere una sua musica, una bella musica che nasca dalla sua terra e che sia dotata di un carattere peculiare: voce naturale di una libera e grande nazione». Dopo il gran botto dell’esecuzione però, più prudentemente, iniziò a mettere le mani in avanti dicendo di non aver voluto copiare alcuna melodia: semmai di aver scritto solo «alcuni temi caratteristici che hanno la qualità della musica indiana».

Insomma, il musicista slavo aveva usato procedimenti armonici che sapevano di folklore, girando intorno a vaghe citazioni di spiritual nel primo (Swing Low, Sweet Chariot) e nel secondo movimento (Goin’ Home), quest’ultimo arricchito dalle tracce di un poema epico indiano, Hiawatha. Non solo, la melodia del corno inglese di questo Largo elegiaco poteva anche non avere nulla di pellerossa. Di fatto, anche lo Scherzo si presenta come un vero e proprio furiant ceco, mentre l’Allegro con fuoco conclusivo ripercorre i temi già presentati in precedenza, come una sinfonia ciclica.

Stefano Bollani alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano

Stefano Bollani

Inizia a studiare pianoforte a 6 anni ed esordisce professionalmente a 15.

Dopo il diploma di Conservatorio conseguito a Firenze si afferma nel jazz, suonando su palchi prestigiosi come quello della Town Hall di New York, del Teatro alla Scala di Milano e di Umbria Jazz.

Stefano Bollani alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano

Pianista, compositore, conduttore tv, scrittore, intrattenitore, Stefano Bollani è uno dei maggiori artisti italiani riconosciuti e acclamati a livello mondiale: la sua arte sconfessa i generi musicali e non conosce confini, portandolo a esperienze come quella di suonare un pianoforte a coda in una favela di Rio de Janeiro.

Fonte: European News Agency – Foto: Roxana Chang

Il Conservatorio di Musica «Giuseppe Verdi» è un istituto superiore di studi musicali di Milano.

Fondato nel 1807 come “Real Conservatorio di musica”, fu intitolato al celebre compositore il 27 gennaio 1901, nello stesso giorno della sua morte. Dal 1971 al 2022 è anche sede del liceo musicale “Giuseppe Verdi”.

Sala Verdi del Conservatorio di Milano

La Sala Verdi (detta anche Sala Grande) ha una capacità di 1580 posti ed è stata costruita sull’area del primo chiostro della chiesa di Santa Maria della Passione. Colpita dai bombardamenti della seconda guerra mondiale (1943) nel dopoguerra è stata ricostruita basandosi su un progetto molto innovativo dell’architetto e, il 18 maggio 1958, inaugurata con un concerto diretto da Antonino Votto. Celebre per la sua acustica (ritenuta tuttora una delle migliori d’Europa) vengono regolarmente tenute stagioni concertistiche tra le maggiori a Milano in cui si sono esibiti anche molti celebri musicisti. La sala è costituita da un’unica lunga platea a gradinate, molto ripida. Nel 1997 è stato rinnovato il palcoscenico che attualmente ha una larghezza massima di 14 metri e una profondità di 8. Organizzata come un vero teatro è dotata di guardaroba e numerosi camerini sotterranei. Nel 2001 è stata restaurata dagli architetti Pierluigi Cerri e Alessandro Colombo e a cura della Fondazione Umberto Micheli.

Fonte: Wikipedia– Foto: Roxana Chang